20 aprile 2020 –
V’è un luogo, in Irpinia, fatto di allegri colori sospesi tra cielo e terra, spennellati dalla brillante luce del sole lungo le facciate delle case, che, dalle curiose finestre e dagli ospitali balconi, si volgono ad accogliere ed assorbire tutte le frequenze dell’incanto. Sorte come ancelle ai piedi del Castello che si erge sulla cima della collina e che testimonia, con la convivenza di torri quadrangolari e circolari, l’antica presenza longobardo- normanna e angioina; librate sulla valle dell’Ofanto tra la terra dei Lucani e la Puglia; appoggiate l’una all’altra senza soluzione di continuità come a impedire la rovina verso il basso, le abitazioni policrome appaiono quasi custodire verità ancestrali, virginee bellezze, racconti mitici, archetipi dell’umano vivere. Collegate e separate da un labirinto di vicoli, stradine, scalinate su cui si affacciano portali in pietra e antichi palazzi, le case raccontano immutato il fascino di un tempo amico e indulgente, paziente e tollerante, comprensivo delle umane debolezze e dei ritmi lenti di una civiltà antica.
A Calitri la vita si snoda semplice e tranquilla, allietata dai profumi di frutti succosi e di fiori variopinti, dai sapori genuini della terra, dal canto degli uccelli e delle fronde, dall’azzurro di un cielo di lapislazzuli e dal verde di una natura benevola e incontaminata. E, su tutto, la modesta cordialità degli abitanti, che accolgono il forestiero come se fosse un amico ritrovato, conducendolo nei luoghi cari della memoria e degli affetti. Attraverso un viaggio che è, innanzitutto, un viaggio dell’anima, un viaggio alla riscoperta di sé, delle proprie radici umane. Un viaggio che passa, innanzitutto, attraverso antichi mestieri, espressione di un’antica saggezza. Così, ad esempio, l’arte calitrana della ceramica affonda le sue radici in tempi remoti, facendosi risalire già al IV-III secolo a.C. per ricevere un notevole impulso con l’arrivo dei Bizantini e raggiungere il culmine nel XIX secolo, allorché la produzione, ai vasi ed al materiale per uso domestico, affiancò la lavorazione di lastre in cotto per pavimenti e di piastrelle per la cucina. La presenza dell’attività di lavorazione dell’argilla a Calitri e, quindi, delle fornaci, dei torni e dei fornaciari ha lasciato eloquenti tracce nei nomi, sia delle persone (es. Tornillo) sia delle strade (ne sono esempi Vico Tornillo, detto, nel XVIII secolo, Vico dei Tornilli, cioè degli artigiani che utilizzavano il tornio a pedale per la lavorazione dell’argilla, o Via Faenzari, il cui nome prende origine dalla presenza di artigiani che, nel XVII secolo, sarebbero stati fatti venire da Faenza, terra esperta nelle tecniche di lavorazione della maiolica).
Il Museo della Ceramica calitrana, allestito negli spazi espositivi del restaurato Borgo Castello, suggestiva cornice ad un’arte che apre una finestra sulla cultura del piccolo borgo, accoglie il visitatore con la sua luce che, colorandosi di azzurro, marrone, giallo, verde, rosso, viene diffusa morbidamente dai motivi ricorrenti del sing sing (linee verticali che, aumentando e diminuendo in lunghezza fino a diventare un punto, decorano la circonferenza dei manufatti) o della rosa mascarina (una rosa semplice, che richiamava probabilmente quella selvatica, un tempo unica esistente in loco).
Custodire la memoria del passato è il fine anche dell’esposizione di oggetti sacri che, ospitata nella grande sala-cripta della Chiesa dell’Immacolata Concezione, raccoglie rarissime testimonianze della storia religiosa di Calitri, tra cui un preziosissimo mobile ad organo, uno dei pochi esistenti in Italia.
Ma il forte legame con le origini da parte dei Calitrani è evidente anche nel recupero e nella conservazione di numerosissimi oggetti della civiltà contadina e artigianale esposti nel Museo Etnografico. O nella riscoperta che Calitri ha avviato di alcune sue vocazioni antiche, come la lavorazione del legno e del ferro, ma anche di antichi mestieri altrove scomparsi, come gli impagliatori, le merlettaie e le ricamatrici. O nella conservazione e rivisitazione di piatti tipici, intimamente legati non solo ai prodotti, ma anche agli spazi tipici di questa straordinaria terra, ricca di fascino semplice e di genuine esistenze. Spazio topico del borgo antico sono le grotte di origine romana, millenarie, in tufo e pietra viva, dove si crea un microhabitat ottimale per la stagionatura dei formaggi, che, qui, acquisiscono proprietà organolettiche inimitabili e conservano il pregio del latte dei pascoli di quelle meravigliose lande incontaminate che dominano l’Irpinia orientale.
A Calitri, dunque, come in nessun altro luogo, la tradizione culinaria si identifica con l’essenza stessa del borgo: innervando spazi e tempi atavici, essa diventa un vero e proprio rito. Rito per eccellenza sono le cannazze, un tipo di pasta lunga e tubolare, già menzionata dalle cronache locali del Settecento, che veniva messa ad essiccare sulle canne (da cui, appunto, cannazze). Le cannazze, che non sono altro, per i comuni mortali, che ziti spezzati lavorati rigorosamente a mano, non potevano che essere un tempo (ma lo sono ancor oggi!) il piatto tradizionale del banchetto degli sposi. Perché, in tanti dialetti meridionali, la zita è la sposa, come lo sposo è uno zito. Ma la salda unione tra uomo e donna, celebrata dal sacro vincolo del matrimonio, trova la sua metafora nell’intero complesso dei gesti rituali che accompagnano la preparazione delle cannazze. Innanzitutto, nella preparazione del ragù, che, ottenuto con le conserve fatte ad agosto in quell’altro meraviglioso rito collettivo che è la lavorazione dei pomodori per l’inverno, dovrà unirsi in matrimonio con la pasta. Una volta, quando il paese era povero e i suoi abitanti non potevano permettersi la carne bovina, il ragù delle cannazze veniva tirato con la carne di pollo (cannazze e kuta–kuta, dove kuta-kuta è la locuzione onomatopeica che i Calitrani utilizzavano per richiamare le galline). Oggi, l’ingrediente principale con il quale si prepara il sugo per le cannazze è l’involtino di carne di vitello, ovvero la vrasciola (cui i Calitrani sapientemente uniscono altri tagli di carne, erbe aromatiche del territorio e una miscela appropriata di formaggi vaccini e pecorini). Anche la vrasciola è un simbolo nuziale, in quanto, essendo un involto di carne, rappresenta l’abbraccio avvolgente che si fanno gli sposi convolando a nozze. Le cannazze vengono finalmente servite nelle spasedde, grosse zuppiere di ceramica bianca, generosamente e frequentemente rimpinguate, dalle quali ogni commensale preleva la sua razione di pasta, accoppiata ad un sincero bicchiere di Aglianico del Vulture.
E, riuniti alla tavola degli sposi, ma, oggi, anche a quella della domenica e di tutti gli altri giorni festivi, i Calitrani celebrano la ritualità del tempo: un tempo sospeso, fatto di semplici rassicuranti gesti ripetitivi; un tempo che si nutre di storia e di memoria; un tempo dedicato alla cura delle anime e dei corpi.
Un tempo rosso, profumato, fumante, tutto raccolto nella bianca spasedda.
Lo sposalizio, festa rituale che investe il singolo individuo, la coppia, la comunità intera, è anche alla base dello SponzFest, un festival musicale nato nel 2013 dalla genialità creativa di Vinicio Capossela con l’idea di ricreare occasioni di comunità. E in cui, come nello sposalizio, l’uno diventa due ma anche molti, divenendo altro da sé e, per questa via, arricchendo se stesso, il proprio mondo, dentro e fuori di sé, il proprio corpo e la propria anima. E, così, Sponz si ricollega anche all’azione di sponzare, ossia inzupparsi come una spugna: assorbire, fino a diventarne grondanti, un elemento diverso da sé, ma che, alfine, diviene parte di sé.
Sponzarsi di musica e di racconti, di relazioni e di comunità, di memorie e di condivisione.
A celebrare, nelle stellate notti di agosto, la liturgia dell’identità collettiva.