27 aprile 2020
Il Monumento della Sacra Croce, posto all’ingresso del borgo, sembra accogliere sotto la sua benedicente protezione chiunque varchi l’immaginario limes che introduce in una dimensione di pacata spiritualità. La Santa Croce, che si erge al sommo di una colonna lavorata a fiorami e scanalata nella parte superiore, rappresenta, dal lato che accoglie il visitatore, il Cristo crocifisso, dall’altro, quello che si volge verso il paese, l’immagine dell’Immacolata Concezione. Quasi a rammentare che l’inizio e la fine del viaggio dell’uomo su questa terra, che l’ingresso e l’uscita sono nel segno del Mistero e della Grazia divini; che il peccato, in qualunque tappa del viaggio ci si trovi, può essere sempre perdonato; che la redenzione dell’Uomo è sempre possibile.
Ma la Santa Croce è anche simbolo della devozione dei Nuscani a Sant’Amato, primo vescovo e patrono di Nusco. A Sant’Amato è dedicata la maestosa cattedrale, la cui cripta romanica, risalente all’XI secolo, custodisce le ossa del patrono. E custodisce anche un altro tesoro, rimasto sepolto per secoli. Una straordinaria opera presepiale ritrovata circa venti anni fa, quando, in occasione di alcuni lavori di rifacimento, nella cripta si rivelò una stanza a mo’ di grotta. E, al cento della stanza, apparve la magia di una Madonna partoriente, una tra le più rare rappresentazioni della Vergine. Distesa su un manto rosso, simbolo di regalità imperiale, la Vergine pone delicatamente la mano sinistra sul ventre e volge dolcemente lo sguardo verso il Bimbo divino, che, affrescato sulla parete in alto a sinistra, viene lavato da due nutrici su un fonte battesimale. Una nutrice rappresenta Eva, attraverso cui il peccato è entrato nel mondo, l’alta rappresenta Salomè, l’ostetrica di Betlemme, che non credeva che una vergine potesse dare alla luce un figlio. Una scena simile viene rappresentata anche in un altro gioiello conservato nella Cattedrale di Nusco: il primo presepe angioino. Risalente al XIV secolo, il dipinto afferma la centralità della Madonna, alle cui spalle è ritratto il Bambin Gesù posto in una grotta, avvolto in fasce e adagiato non già in una mangiatoia, bensì in una sorta di sepolcro. Si vuole, così, celebrare la sospensione del Tempo: un Tempo eterno, un Tempo che è Vita e Morte insieme, che è, contemporaneamente, ciò che era è e sempre sarà.
Proprio di fronte alla cattedrale di Sant’Amato si leva imponente il Palazzo vescovile, che, eretto a metà del Settecento, ospita il Museo di Arte sacra. Il museo raccoglie e racconta oltre mille anni di storia della diocesi di Nusco, intrecciandosi con la storia di altre sei diocesi, da quella più importante e prestigiosa, l’Arcidiocesi di Conza, a quelle, altrettanto illustri, di Sant’Angelo dei Lombardi, Bisaccia, Montemarano, Frigento, Monteverde.
Agli edifici simbolo del potere religioso fa da contraltare il Castello, simbolo per eccellenza del potere politico e feudale, che si raggiunge percorrendo un labirinto di stradine e vicoli, su cui si aprono portali, archi e volte splendidamente lavorati in pietra locale, cui l’abilità degli scalpellini ha donato il suggello dell’arte.
Dell’antico e glorioso maniero, costruito nel IX secolo e, dunque, di origine longobarda e che diede protezione e riparo nel 1122 a Guglielmo (ultimo duca di Puglia, futuro Re delle Due Sicilie, successore del padre Ruggiero il Normanno) e nel 1245 a Manfredi (figlio illegittimo di Federico II e futuro Re di Sicilia), restano solo poche vestigia. Gli anziani narrano che fu proprio dalle mura del Castello che Sant’Amato, per difendere il borgo da un imminente attacco nemico, scagliò una grande pietra verso le Serre, dove si trovavano gli invasori, i quali, colti dal panico, fuggirono. Tale masso, all’incirca delle dimensioni di un metro per un metro, si trova ancora sulla cima della collina delle Serre e conserva, nella parte superiore, le impronte lasciate dalle dita del Santo.
Dal Castello si può godere un panorama straordinario, di impareggiabile bellezza, immerso in infiniti silenzi e profondissima quiete. La vista spazia ad abbracciare il massiccio del Vulture, la cima del Montagnone di Nusco, il Terminio, il Partenio, il Taburno, il Matese sino ai Monti Dauni. Il borgo osserva dall’alto Bagnoli, Montella, Cassano, Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, mentre l’azzurro del cielo si colora del rosso dei tetti e si illumina di una magica luce radiosa, che pare tutta concentrarsi in questo cantuccio d’Irpinia. E tra pietre, memorie e vento, da questo balcone, sospeso a più di 900 metri di altezza, l’occhio erra tra la fioritura primaverile di bucaneve, primule, anemoni, l’arcobaleno estivo di centauree, campanule, genziane, sassifraghe, la magia delle innumerevoli nuance autunnali di rosso, di arancio, di giallo. Finché ogni cosa si spegne nel bianco della coltre nevosa. Mentre sulle alture coperte di querce, cerri, carpini, lecci, ontani, castagni, pioppi, aceri, faggi trovano rifugio il lupo, la volpe, la faina, la puzzola, la martora, la talpa, il riccio, il cinghiale. Mentre l’airone, la cicogna, il germano reale, la poiana, l’aquila reale, l’usignolo, il pettirosso, la capinera, il merlo, il fringuello, il verdone, il passero intrecciano i loro voli e riempiono il cielo dei loro canti.
Il volto devozionale di Nusco è evidente anche nella celebre Notte dei Falò, che per tre giorni, a metà gennaio, si tiene in onore di Sant’Antonio Abate. I festeggiamenti, che colorano di rosso le strade e il cielo del centro storico, vedono l’intrecciarsi e il confondersi di una pluralità di tradizioni e credenze. La festa vuole, innanzitutto, celebrare la vittoria del Santo sul demonio allorché Antonio discese negli Inferi per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo: mentre il suo maialino scorrazzava creando scompiglio fra i demoni, Antonio accese il suo bastone a tau col fuoco infernale e lo portò fuori, insieme al maialino recuperato, come dono all’umanità. Da allora Sant’Antonio viene invocato come patrono di quanti lavorano col fuoco, nonché contro quel fuoco metaforico che certe irritazioni cutanee provocano. Prima fra tutte l’herpes zoster, volgarmente noto, per l’appunto, come fuoco di Sant’Antonio. Tale irritazione, a sua volta, si collega alla simbologia del maialino, con cui spesso viene rappresentato il Santo, giacché si credeva che il grasso di maiale, posto sull’immaginetta del Santo, potesse guarire le ferite del fuoco sacro. E, infatti, ancora nel XVII secolo si usava distribuire nel Regno di Napoli il cosiddetto Pane di Sant’Antonio, ottenuto con la parte più pura del grasso di un porcellino e ritenuto protettivo contro l’infezione del fuoco di Sant’Antonio. Ma a Nusco la protezione del Santo fu invocata in occasione di una ben più tragica infezione: nel 1656 ci fu una violentissima epidemia di peste che investì l’intero Mezzogiorno e che causò nella sola Nusco circa 1200 vittime. In quella occasione, per la prima volta, furono accesi i falò come mezzo di purificazione corporale e spirituale, ma anche per chiedere, in extremis, l’aiuto sacro di Sant’Antonio Abate. Che, secondo la leggenda, ascoltò le preghiere e pose fine all’epidemia.
Una profonda fede, dunque, e un sincero rapporto col Divino vivificano questo borgo, che sembra quasi protendersi verso il cielo. Tra il profumo del muschio e l’ondeggiar dei nembi.