25 maggio 2020 –
Se il limes Romanus indicava il confine della potenza e della cultura romane oltre cui si estendeva, spesso, il regno della ferinitas, degli inculti mores, dell’inhumanitas -in una parola, della barbarie-, i Limiti di Frigento indicano il confine tra cielo e terra, tra finito e infinito, tra sogno e realtà. Un limite che apre le porte all’illimitato, verso un orizzonte senza fine e da dove lo sguardo può muoversi tra cinque regioni, undici province, più di cento comuni. Ove è possibile udire la voce del silenzio e, pregni di luce e di immensità, concedersi un tempo nel quale percepire se stessi, recuperare il contatto con la propria interiorità, ascoltare ed ascoltarsi. Per ricominciare il gioco o la guerra quotidiani da una nuova prospettiva. Perché, se è vero che la straordinaria bellezza della vastità che si distende dinanzi ai nostri occhi ci dà la netta percezione della nostra piccolezza, è ancor più vero che quella bellezza ineffabile ci dona soprattutto la coscienza della nostra grandezza e superiorità morale, innalzando l’anima al divino e donandoci la certezza di essere parte di un grandioso e insondabile progetto.
Ma il varco che Frigento offre verso un mondo altro non è solo quello che immette in universi di pacata e silenziosa luminosità, ma anche quello che conduce nei sotterranei e bui regni dell’Ade. Perché il borgo, insieme con altri piccoli paesi limitrofi, è parte della Valle d’Ansanto, che, ribollente di vapori pestilenziali, già da Virgilio veniva indicata come sede dell’ingresso nel regno dei morti. Proprio qui, ove si sprigiona la più forte esalazione gassosa di tipo non vulcanico d’Europa, con un’emissione di anidride carbonica superiore a quella di Stromboli e Vulcano messi insieme, fu ritrovato l’altare della dea Mefitis (attualmente conservato, in parte, nel Museo di Capodimonte di Napoli e, in parte, nel Museo Irpino di Avellino) alla quale, secondo taluni, sarebbe da ricollegare il toponimo del delizioso borgo, giacché Frigento sarebbe la traduzione dall’osco di acqua santa. Divinità italica, il cui culto era diffuso soprattutto nell’Italia osco-sabellica e, in particolare, in Irpinia, la dea Mefitis fu venerata per circa mille anni, dal VI sec. a.C. al IV sec. d.C., finché S. Felice da Nola, giunto nella valle, non provvide a sostituire il tempio della dea pagana con una chiesetta dedicata a Santa Felicita e ai suoi sette figli martiri. Tuttavia, ancor oggi è diffusa nell’immaginario collettivo la convinzione che, nei pressi della Mefite (termine con cui vengono indicati anche il fenomeno paravulcanico e, dunque, la zona in cui esso si manifesta), si aggirino diavoli dalle orrende sembianze che scorrazzano tra le colline trascinando i malcapitati nella bocca dell’inferno, tra grida orrende ed inquietanti lamenti.
Eppure, la Mefite è alla base di una delizia unica al mondo: il formaggio Carmasciano. Prodotto con il latte di pecora laticauda (una specie a rischio di estinzione presente soltanto sull’Appennino campano), questo pecorino è, per l’appunto, dono della Mefite, che, con le sue esalazioni sulfuree, conferisce al latte delle pecore tenute al pascolo nella Valle d’Ansanto un gusto sublime e inimitabile, facendone un prodotto artigianale di nicchia.
L’origine sannita, cui rimanda il culto della dea Mefitis, spiega il temperamento altero, bellicoso e fiero degli abitanti dell’antico vicus, che fu alleato dei Cartaginesi durante le guerre puniche, partecipò alla rivolta sociale, aderì all’insurrezione di Spartaco. Divenuta colonia romana, Frigento fu dapprima inserita nel processo di romanizzazione delle città italiche e, anche in virtù della sua straordinaria posizione geografica, poi selezionata per la realizzazione di un ambizioso programma edilizio, di cui, oggi, sono superba testimonianza le cisterne risalenti almeno al I sec. a.C. Costruite in opus incertum, le cisterne raccoglievano acqua che, depurata, veniva convogliata attraverso cunicoli in tutto il borgo fino a valle, dove si trovavano le ville rustiche, e che, ancor oggi, converge in vasche minori di palazzi settecenteschi presenti nel centro storico.
Con l’avvento del Cristianesimo, il borgo meritò l’onore della cattedra vescovile, alla quale fu elevato, nella seconda metà del V secolo, Marciano, un giovane anacoreta di origine greca, divenuto, poi, il Santo patrono di Frigento. Contesa, per la sua posizione geografica (che consentiva di dominare e controllare la valle dell’Ufita a nord, la conca del Fredane a sud, la valle d’Ansanto a est e il bacino del Calore a ovest), tra i principi di Salerno e di Benevento durante la dominazione longobarda (di cui sono testimonianza i ruderi del Castello di Sant’Angelo a Pesco), Frigento conobbe il periodo di massimo splendore nel XVIII secolo, cui, infatti, risale la maggior parte degli edifici di culto e dei palazzi signorili.
Ma il singolare e ammaliante fascino di questo borgo risiede anche in ataviche celebrazioni di devozione popolare, che, a testimonianza della vocazione agricola delle terre della nostra Irpinia, è di scena in occasione delle feste della Madonna dell’Assunta e di San Rocco.
Nel tardo pomeriggio di Ferragosto, dal Santuario della Madonna del Buon Consiglio, sotto lo sguardo attento della statua della Madonna che sorregge il Bimbo divino, ha inizio la processione di nove Carri (uno in rappresentanza di ogni contrada), carichi di covoni di grano magistralmente intrecciati. La Tirata dei Carri di Covoni nasce come evoluzione dell’antica consuetudine, una volta mietuto il grano, di metterne da parte una quota simbolica per offrirlo in dono a San Rocco, quale ringraziamento per il buon raccolto ottenuto. Il grano da offrire al Santo veniva intrecciato e posizionato in modo da ornare alcuni carretti di legno trainato da buoi. Oggi, i carri, trainati da una coppia di superbi buoi fatti venire appositamente dalla Puglia, salgono lentamente verso il centro del paese, tra due ali di folla festante, per stazionare alfine davanti alla Chiesa del Purgatorio e offrirsi, così, all’ammirazione dei fedeli e dei visitatori. L’oro del grano, finemente intrecciato da mani abili e sapienti a creare (con l’ausilio di pochi altri materiali, come quadretti con l’effigie di San Rocco e pannelli di legno) una serie di tabernacoli ornati con motivi floreali e mirabili volute, risplende alla luce del sole che tramonta, illuminando con bagliori di rame il verde dell’Irpinia.
Il rito del grano e i festeggiamenti in onore di San Rocco continuano il giorno seguente, quando la mattina, in occasione della processione del Santo, sfilano per le vie del paese circa 25 mezzetti, grandi contenitori di legno, che un tempo rappresentavano l’unità di misura dei cereali in alta Irpinia (circa 30 kg). Ricolmi di alte spighe di grano artisticamente lavorate e ornati artisticamente con grano intrecciato, nastri colorati o fiori finti, i pesanti mezzetti, come vuole la tradizione, vengono trasportati sul capo da donne particolarmente devote al Santo.
L’antico rito della trebbiatura chiude i festeggiamenti espressione della devozione sincera di una comunità. Tale rito, ricco di storia e tradizione, attraverso i gesti antichi e gli attrezzi tradizionali della civiltà contadina, consente un vero e proprio tuffo nel passato, un momento di riflessione sulla propria storia alla riscoperta dell’identità comunitaria, dei valori più sani e genuini, del senso dello stare insieme.
Nella volontà di ritrovarsi sulla linea di confine. Affinché il limes non sia sinonimo di divisione, ma simbolo di interazione.