3 agosto 2020 –
Disteso al centro della conca serinese, nell’alta Valle del Sabato, l’ameno borgo di San Michele di Serino riconosce già nel toponimo i suoi elementi distintivi e fondanti. Così, se Serino deriverebbe, per trasformazione, da Sereno (il paesino delizia la vista con il brillante rigoglio dei boschi e l’azzurro terso del cielo, accarezza l’udito con il gorgogliare delle numerose e fresche sorgenti, appaga il gusto con cibi genuini di antica tradizione popolare, sollecita l’olfatto con le fragranze di una natura incontaminata), San Michele è un evidente richiamo alla sua origine longobarda. Infatti, il nucleo originario del borgo si sarebbe costituito intorno ad una cappella dedicata all’Arcangelo Michele, che i Longobardi avrebbero costruito nel VII secolo e di cui si ha notizia certa nell’anno 847. A questo luogo di culto affluivano i pellegrini (la località era, infatti, detta ad peregrinos), che da Salerno e da Nocera si portavano al Santuario micaelico del Gargano e che, dopo aver sostato in preghiera, rinfrescato le membra stanche ed essersi rifocillati, riprendevano il cammino. Nel luogo in cui sorgeva la cappella, nel XVII secolo venne edificata la Chiesa Parrocchiale, che, tuttavia, a seguito del terremoto del 23 novembre 1980, fu interamente distrutta. Dalle macerie venne recuperato ben poco: l’altare di San Michele, alcune statue di santi, una preziosa tela di Angelo Solimena raffigurante la Sacra Famiglia. Tali memorie del passato vengono gelosamente custodite dagli abitanti nella nuova Chiesa, che, ricostruita altrove grazie al finanziamento delle Opere Pubbliche e arredata con il generoso contributo del popolo, consta di tre navate con ampia aula centrale, in stile romanico-moderno.
Ma il terremoto distrusse l’intero borgo medioevale, di cui, a ricordo, restano unicamente i ruderi del castello sulla collina della Madonna delle Grazie, tuttora circondato da mura sannite, e un plastico che riporta fedelmente il vecchio centro abitato e che è conservato in un apposito locale, sito sotto il pavimento della Chiesa Parrocchiale.
Purtroppo, il terremoto danneggiò anche il bellissimo palazzo Mariconda. La storia di questo edificio merita di essere narrata. È la narrazione di un profondo attaccamento alla propria terra e alle proprie origini, che prende corpo e sostanza nella casa quale nucleo degli affetti domestici, spazio intimo per eccellenza, protezione dalle insidie della realtà esterna. Ma veniamo al dunque. Come milioni di Italiani, anche Domenico Mariconda visse l’esperienza dell’emigrazione transoceanica. Partito da san Michele di Serino agli inizi del Novecento, Domenico emigrò nell’America del Sud in cerca del sogno americano, che si concretizzò, dopo anni di duro lavoro, in una cospicua fortuna. Tuttavia, il suo vero sogno era ritornare in Italia, nei luoghi della sua infanzia e delle sue radici. Portando con sé, nel suo paese, ciò che rappresentava non tanto e non solo il simbolo del suo successo quanto, piuttosto, la parte più vera e profonda di sé. Fece, così, demolire il suo palazzo americano e, dopo averlo catalogato pezzo a pezzo, pietra per pietra, lo fece trasportare e riedificare a San Michele di Serino. Dove l’edificio, con il suo stile liberty ispano-americano del XVIII-XIX secolo, si staglia contro l’azzurro del cielo, imponente nella sua architettura floreale, impreziosita da una congerie di figure rampanti, vasi, angioletti, colonne tortili, a dominare le modeste costruzioni di impianto contadino del piccolo borgo.
Il legame viscerale di questa terra con il suo passato (che la drammatica esperienza del terremoto ha reso ancor più tenace nella volontà di consegnare la propria storia alle future generazioni) è evidente anche nella salvaguardia delle tradizioni e della cultura popolari: dalla valorizzazione dei numerosi genuini prodotti enogastronomici (prodotti ortofrutticoli, cereali, olio, vino, castagne, prodotti caseari) al raduno di suonatori di ciaramelle e di zampogne (che, col dolce suono di ninne nanne, del nostro dolce e passato pianger di nulla, raccontano il legame con i ricordi della nostra infanzia), dalla tradizione dello scandone (un grosso ramo di pino adorno di arance e limoni che, nel periodo pasquale, viene donato di casa in casa in segno di buon augurio, benessere e prosperità) alla manifestazione Sul filo dei ricordi (una rassegna del patrimonio materiale e immateriale di San Michele, nell’intento di preservare, conservare e tramandare l’anima identitaria del piccolo borgo, sconvolta dal terremoto dell’Ottanta) alla tradizione della Rosamarina (una particolare manifestazione musicale svolta con funzione di questua sia in onore di San Michele sia nelle ricorrenze natalizie e pasquali).
Nel segno di un’appartenenza abbarbicata ad una storia quale vero baluardo a salvaguardia della identità di un popolo e del territorio da quello abitato.