23 dicembre 2019 –
Cervinara, da tempo uno dei paesi più grandi dell’Irpinia per numero di abitanti, lega il suo toponimo a tre suggestive ipotesi, che ben restituiscono le tre anime che mi sembra caratterizzino il borgo.
Il volto che scopre il suo lato pio e devoto guarda a quella leggenda che vuole derivare il nome “Cervinara” da un altare dedicato dai Romani a Cerere, dea delle messi, che sorgeva nella vicina Caudium (collocabile in una zona centrale della Valle Caudina, fra i territori dei comuni di Montesarchio e Bonea) e intorno al quale, dopo la distruzione di Caudium da parte dei Romani per vendicare l’offesa delle Forche Caudine del 321 a.C., sarebbe stato edificato, appunto, il borgo di Cervinara.
La componente religiosa è evidente nell’arcipelago di chiese che costellano le undici frazioni che compongono il borgo. Tra esse spicca la Collegiata di San Gennaro, cui si giunge ascendendo la bellissima scalinata della fede caudina, quasi un accesso al cielo. Risalente almeno all’XI secolo e elevato a Chiesa Collegiale (1781-1782), ad Abbazia (1791) e, infine, a Santuario diocesano (1991), l’edificio nel 1993 venne consacrato a Santuario della Madonna o Vergine Addolorata e nel 2000 venne inserito nel circuito del Giubileo. Attraversato il bel portale in pietra del 1581, corredato da una statuina di S. Gennaro, protettore del paese, si viene avvolti da una morbida luce, che illumina tanti piccoli capolavori: una statua di S. Gennaro del 1718 realizzata con marmo di Carrara, un elegante altare maggiore in marmi policromi del 1706, una preziosa cantoria lignea del XV secolo, delicati affreschi del XVII e XVIII secolo.
A proteggere la valle da quasi mille anni è, invece, la Chiesetta di San Biagio, sulle pendici del monte Pizzone, e, da qualche anno, l’abbraccio della statua del Cristo Redentore, che dal Belvedere osserva e custodisce il borgo.
Il volto naturalistico di Cervinara, invece, tende verso l’ipotesi secondo cui, essendo il territorio comunale ancora oggi ricco di boschi e, quindi, presumibilmente frequentato in passato da abbondante selvaggina, il toponimo derivi, basandosi sulla importante presenza di cervi, da “terra di cervi” o ara cervis, cioè altare dei cervi. Non a caso proprio un cerbiatto appare sullo stemma comunale di Cervinara. Tale tesi, però, contrasterebbe con il fatto che in passato tutta la zona fosse malsana, tanto che la denominazione Cervinaria, impiegata in un’antica cronaca dell’Abbazia di Farfa (l’abbazia, ubicata nel comune di Fara, in provincia di Rieti e uno dei monumenti più insigni del Medioevo europeo, al culmine della sua potenza, era giunta a controllare 600 tra chiese e monasteri, 132 castelli o piazzeforti, 6 città fortificate, per un totale di più di 300 villaggi ), ivi proprietaria di un terreno, era riferita agli insetti tipici delle paludi, detti appunto “cervi volanti”, cioè “cervi in aria”.
Riporto quest’ultima tesi solo per dovere di cronaca, giacché la salubrità dell’aria e il clima temperato, la fertilità del suolo (coltivato a cereali, frutta, mele, ciliegie, uva da vino, tabacco, fagioli), i pingui pascoli, il ricco patrimonio boschivo (castagni, pioppi, faggi) e del sottobosco (funghi porcini e tartufi) non possono che farmi propendere per la prima ipotesi.
Ma Cervinara è anche contatto con una natura incontaminata e, per certi versi, selvaggia, che si lascia ammirare percorrendo l’antico sentiero delle grotte e dei briganti, un tempo molto numerosi in queste zone e che, costituitisi in bande come reazione alla pesante tassazione e alla leva obbligatoria imposte dalla recente dominazione sabauda, saccheggiarono e depredarono per anni la Valle, trovando rifugio tra le montagne, divenute base per scorrerie in tutta l’area circostante.
L’ultimo volto, quello più gaudente, strizza l’occhio alla tesi che fa discendere il nome del paese da una “cella vinaria”, ossia una cantina per la conservazione del vino, facente parte di una proprietà rurale monastica. Il volto enogastronomico del borgo si illumina alla vista dei genuini prodotti e dei succulenti piatti tipici: le lavanelle (rigorosamente fatte in casa) con fagioli, i fusilli, gli gnocchi, la menesta ‘o pignato, i ruoccoli, le sasicchie, le patate alla brace, la carne paesana, diversi tipi di cacciagione tra cui fagiano e cinghiale, i peperoni arrostiti. Il tutto innaffiato dagli ottimi vini locali, in primo luogo l’Aglianico. Ma sopra ogni cosa lei: la castagna bionda del Partenio. Ricca di potassio, di magnesio, di calcio, è conosciuta in tutto il mondo per le sue proprietà organolettiche. Con una produzione di 18/20.000 quintali annui, che fa di Cervinara uno tra i più importanti produttori italiani, la castagna è la regina del saporito regno culinario del borgo. Non solo le tradizionali e più note caldarroste e castagne lesse, ma anche zuppa con fagioli e castagne, fusilli con pancetta e crema di castagne e zucca, gnocchi con polpettine di castagne e funghi, arista di maiale con vellutata di castagne, cosciotto di agnello in salsa di castagne, arrosto con mela annurca e castagna, marmellata alla castagna, panettone alla castagna, tronco di castagnaccio, crostata di castagne, flan di castagna, tartufi di castagna dal cuore di pandispagna, birra alla castagna.
A introdurre la coltivazione della castagna in queste terre furono i monaci, cui si deve anche il primo documento che, risalente all’837, menziona il borgo di Cervinara. Nello specifico, si fa riferimento ad uno scambio di terre tra i monaci di San Vincenzo al Volturno ed il principe beneventano longobardo Sicardo, che ricevette il castrum quod dicitur Cerbinaria in Caudetanis. Il castrum, fortilizio difensivo di cui ancor oggi sono visibili i ruderi, creò le premesse per la nascita di un borgo medioevale, che venne difeso da mura, molto probabilmente a protezione delle incursioni saracene.
Ricostruito e modificato prima dai Normanno-Svevi e poi dagli Angioini, fu sede dei feudatari fino a quando prevalsero i motivi di riparo e di difesa. Quando, poi, nel Cinquecento gli interessi economici e sociali della popolazione si spostarono in pianura, i d’Avalos fecero costruire il Palazzo Marchesale che, nella prima metà del Seicento, verrà ampliato e rimodernato dal marchese Francesco Caracciolo.
Francesco lo dotò di una serie di elementi decorativi abbastanza inconsueti che risultarono all’epoca -così come lo sono tuttora – ammantati di un indecifrabile alone di mistero. La facciata del palazzo è infatti ricoperta di simboli che sembrano richiamarsi ed alludere alla simbologia massonica, come l’Archipendolo (lo strumento di misura costituito da squadra e compasso simbolo della Massoneria), la Croce Patente o Croce Templare, la Losanga, i Fiori della Vita, la Spada Fiammeggiante. Ma il mistero si infittisce se si pensa che la Massoneria si formò ufficialmente solo parecchi decenni più tardi, il 24 giugno del 1717, ossia circa cinquant’anni dopo la morte di Francesco. Il che porterebbe a pensare che il marchese possa essere stato uno dei primissimi aderenti ai Rosa Croce, una setta proto-massonica nata in Germania agli inizi del XVII secolo.
Un’altra conferma degli interessi esoterici del Caracciolo viene dalle decorazioni del Salone della Giustizia, che Francesco fece realizzare nel Palazzo Marchesale. L’enorme sala, di ventidue metri per nove, possiede uno splendido soffitto ligneo a cassettoni ed un ciclo di dipinti a tempera ove scene tratte dalla Gerusalemme Liberata si alternano a medaglioni con i ritratti di personaggi di casa Caracciolo. Con ogni probabilità prima trasposizione pittorica conosciuta del capolavoro di Torquato Tasso, gli affreschi non solo riportano diversi episodi collegati alla magia e all’esoterismo, ma spesso illustrano maghi e libri con particolari simbologie che non appaiono descritte nel capolavoro del Tasso, risultando, quindi, delle aggiunte che furono probabilmente ispirate dagli interessi e dagli studi esoterici del marchese.
Cervinara. Terra di fede sincera, di incontaminati paesaggi naturali, di enogastronomia di eccellenza. Ma, anche, terra dal fascino misterioso e ammaliante.