20 gennaio 2020 –
Mi siedo ad uno dei tavolini delle sale in stile liberty della celeberrima pasticceria Ciotola e, avvolto dalle delicate atmosfere ramate percorse da guizzi dorati, celebro l’apoteosi dei sensi. La morbidezza dei broccati e la leggerezza delle note di sottofondo addolciscono e bilanciano le forti sollecitazioni cui sono stati sottoposti la vista e l’olfatto a contatto con questo regno delle delizie: un tripudio di odorose creme e di glasse policrome, uno spumeggiare sterminato di dolci e torte, un trionfo goloso di capolavori di cioccolato colorano del loro profumo inebriante la sala. Ma questo non è che il preludio al connubio mistico della setosa crema di cioccolato con la voluttuosa soffice panna, vero e proprio corto circuito tra le papille gustative e l’ipotalamo. E così, ispirato dalle fragranze e dai sapori, comincio a scrivere il mio post su Grottaminarda.
“Adagiato nella valle del fiume Ufita, ai margini dei ridossi collinari Catauro e Tamauro, lungo un importante snodo viario che, fin dalla preistoria, ha reso agevole il passaggio dal Tirreno al litorale adriatico grazie alla presenza di naturali vie di comunicazioni, il borgo deriverebbe il suo toponimo dall’unione di crypta (grotta) e di Maynardus, un nome medioevale -forse di persona- di origine germanica (sebbene un’altra interpretazione, più fantasiosa, attribuisca l’origine del toponimo alla Crypta Minervae, una grotta dedicata alla dea Minerva). Dall’originario Crypta si sarebbe gradualmente passati a Criptaminarda, Criptamainarda, Grottamainarda e, infine, Grottaminarda. Uno dei primi signori ad essere investiti del feudo, nel corso della prima metà del XII secolo, dovette essere tal Torgisio de Grutta, cavaliere normanno giunto al seguito di Roberto il Guiscardo. Passato ai Gesualdo forse già intorno al 1142, il borgo viene dato a Guglielmo Boccafolle, appartenente alla nobile famiglia dei d’Aquino, che terranno il feudo fino al 1528, quando, per aver aderito al movimento antiaragonese durante la guerra tra Spagna e Francia, a Ladislao II d’Aquino vengono tolti tutti i possedimenti feudali, sicché il feudo di Grottaminarda passa ai de Rupt, dopo i quali si avvicenderanno più casati, fino ad arrivare all’ultima casa nobiliare dei Coscia di Paduli.
Le su citate famiglie feudali stabilirono la loro residenza nel Castello d’Aquino (il cui impianto originario risalirebbe ai Longobardi, che costruirono il maniero in posizione strategica a difesa dagli attacchi bizantini), che prende il nome dalla famiglia che non solo fu quella più a lungo proprietaria della fortezza, ma anche quella più prestigiosa. Infatti, Landolfo d’Aquino, generale al servizio di Federico II e feudatario, appunto, di queste terre, fu il padre del più famoso Tommaso d’Aquino, santo e dottore della Chiesa, che, se proprio non nacque nel castello nel 1225, almeno lì meditò sui destini dell’uomo e sull’esistenza di Dio. Attualmente, ciò che resta del castello sono la cinta muraria e le torri, sebbene, sia all’interno delle torri sia tra le cortine murarie interposte e i contrafforti di base, si conservino ancora camminamenti e suggestivi cunicoli sotterranei voltati a botte, mentre resti del coronamento merlato guelfo s’intravedono alla sommità di alcuni tratti murari.
Le su citate famiglie feudali stabilirono la loro residenza nel Castello d’Aquino (il cui impianto originario risalirebbe ai Longobardi, che costruirono il maniero in posizione strategica a difesa dagli attacchi bizantini), che prende il nome dalla famiglia che non solo fu quella più a lungo proprietaria della fortezza, ma anche quella più prestigiosa. Infatti, Landolfo d’Aquino, generale al servizio di Federico II e feudatario, appunto, di queste terre, fu il padre del più famoso Tommaso d’Aquino, santo e dottore della Chiesa, che, se proprio non nacque nel castello nel 1225, almeno lì meditò sui destini dell’uomo e sull’esistenza di Dio. Attualmente, ciò che resta del castello sono la cinta muraria e le torri, sebbene, sia all’interno delle torri sia tra le cortine murarie interposte e i contrafforti di base, si conservino ancora camminamenti e suggestivi cunicoli sotterranei voltati a botte, mentre resti del coronamento merlato guelfo s’intravedono alla sommità di alcuni tratti murari.
A pochi metri dal Castello d’Aquino sorge la chiesa di Santa Maria Maggiore, edificata nel 1478, ma completamente ricostruita nella seconda metà del XVIII secolo su progetto dell’architetto Ciriaco di Silva, allievo del Vaccaro, dopo che la fabbrica fu rasa al suolo per i danni riportati a causa del disastroso sisma del 1732. La chiesa è fiancheggiata da una superba torre campanaria, che, con i suoi 36 metri, domina l’intero centro urbano e la media valle dell’Ufita. Secondo la tradizione, il progetto del campanile sarebbe stato realizzato da Luigi Vanvitelli, che, durante uno dei suoi viaggi nel Regno di Sicilia alla ricerca di materiali per la realizzazione della Reggia di Caserta, si sarebbe fermato in una delle locande grottesi, dove avrebbe incontrato l’arciprete Petrillo, cui avrebbe disegnato, su un pezzo di carta, il progetto del campanile. Realizzata tra il 1761 e il 1772 dai maestri scalpellini Eligio Falcucci di Grottaminarda e Domenico Quarata di Fontanarosa, originariamente la torre si sviluppava su quattro piani con cupola a cipolla. Nel 1871 la cupola venne abbattuta per realizzare un nuovo piano necessario ad ospitare l’orologio e nel 1902 venne realizzata una balaustra in pietra, che portò il numero dei piani del campanile a quello odierno. Immediatamente sopra la porticina di ingresso, la statua marmorea dell’arciprete Giovanni de Bellucis (1564-1626), recuperata dalla vecchia chiesa caduta col terremoto del 1732 e incastonata in una nicchia alla base della torre, sembra assorta, quasi indifferente al mondo terreno, nella dimensione dell’Eterno, ormai partecipe del mistero divino.
A cinque chilometri da Grottaminarda, nella frazione Carpignano, si trova il santuario della Madonna di Carpignano, da cui è possibile ammirare l’intera valle attraverso cui scorre sinuoso il fiume Ufita. La chiesa conserva una tavola raffigurante la Madonna con il Bambino, che, secondo la leggenda, fu trovata da alcuni pastori nel 1150, nel cavo di un grosso albero di carpino. L’antichissima icona mariana, che ha subìto diversi restauri già a partire dal Seicento, costituisce una tra le poche rappresentazioni di Madonne nere ancora conservate in edifici di culto della provincia di Avellino. Alla venerazione della Madonna di Carpignano è dedicata, ogni anno, la prima domenica di settembre. Mentre a San Tommaso, a Sant’Antonio e a San Rocco è dedicata una delle manifestazioni più sentite, che, nella seconda metà di agosto, richiama gran parte delle genti del circondario: si tratta del cosiddetto Festone, che, fin dal 1889, porta in processione le statue dei tre santi dalle vesti riccamente ornate dei monili d’oro donati nel corso degli anni da numerosi fedeli, che sempre, in gran numero, affollano per tre giorni le strade del paese. La festa è suggellata dagli scoppiettanti fuochi pirotecnici, che, degni dei migliori fuochisti e senza soluzione di continuità, illuminano la notte estiva: una pioggia di colori, uno sfavillio di eteree pietre preziose, una cascata di fiori iridescenti dipingono i volti e colmano gli occhi di stupefatta allegria infantile.
Arte, fede, tradizione: tre volti armoniosamente fusi nella storia di Grottaminarda, un altro gioiello incastonato nel verde della nostra bella Irpinia.”
Ed è finita anche la mia crema di cioccolato, che, stretta alla panna in un sensuale abbraccio, ha permesso che io toccassi tutti li termini de la beatitudine.